Ricordo di Giovanni Spadolini/Un legame profondo con lo statista repubblicano

Il mito del buongoverno non si estingue

Nell’introduzione all’ultima edizione del suo "I repubblicani dopo l’Unità", Giovanni Spadolini ricorda che a fine febbraio del 1972 Ugo La Malfa gli chiese di candidarsi in un seggio senatoriale di Milano come indipendente. Ricorda anche che prese quarantotto ore di tempo, e che alla fine accettò quell’offerta. Il resto, scrive Spadolini, "è storia nota". Ed è una storia che noi tutti conosciamo: da Senatore "indipendente", Spadolini divenne ben presto un repubblicano convinto, tanto da assumere, dopo la scomparsa di Ugo La Malfa, la guida del partito, riuscendo ad assicurare al PRI uno strepitoso successo elettorale, mai raggiunto nel passato e mai più eguagliato in seguito.

Spadolini arrivava al Partito repubblicano da un’esperienza giornalistica che lo aveva visto direttore de "La Nazione", del "Resto del Carlino" e del "Corriere della Sera", ma era anche uno storico attento e acuto di quel mondo culturale e politico fatto di minoranze lungimiranti, che avevano segnato la storia dell’Italia nelle sue svolte decisive, a partire dal Risorgimento. A questa tradizione di minoranza apparteneva il Partito repubblicano, la cui storia egli aveva voluto approfondire e studiare, frequentando la biblioteca e l’archivio di quell’altro grande e tenace repubblicano che era stato Giovanni Conti, rifondatore del PRI all’indomani della Prima guerra mondiale e, in seguito, anche all’indomani della catastrofe della seconda guerra mondiale.

Ricordare Spadolini oggi, a diciotto anni dalla scomparsa, implica rammentare cosa significhi essere Repubblicani in tempi di crisi della democrazia, dell’economia, e degli equilibri internazionali. Nella piena tradizione che aveva instaurato Mazzini durante la storica lotta risorgimentale, il ministro fiorentino si definiva "l’Evangelista del nuovo vangelo laico e democratico, l’Evangelista della democrazia laica cioè integrale".

Sentiva forte su se stesso la responsabilità di rappresentare il primo governo laico della Repubblica, il "governo difficile", come fu definito. Come ricordò lo stesso Spadolini: "Il PRI aveva gettato in campo tutto il proprio peso politico e ideale, nel momento forse peggiore, per mettere alla prova programmi mai prima di allora tentati."

Ieri, come oggi, incombeva la crisi economica. E ieri, come oggi, l’impasse politica creava un ostacolo allo sviluppo economico. Ricorderete i temi imperanti di tutta la discussione macroeconomica al tempo della lira: inflazione galoppante, e svalutazioni costanti. Temi caldi allora, ragion per cui, avendo ormai delegato il potere monetario alla BCE, ci ritroviamo nudi e crudi oggi: emergenza economica, emergenza di produttività. Il governo Spadolini, che salì in carica nel giugno del 1981, prese in mano un’inflazione "sudamericana", che aveva raggiunto il 20% nel 1979, e che due anni dopo oscillava ancora pericolosamente attorno a quella vetta. La politica di rigore cui il governo si attenne ligio, vide l’impostazione di una nuova politica di bilancio, che riuscì a riportare la corsa dei prezzi a una normalizzazione entro la fine del decennio.

E non fu facile. Non fu facile perché le difficoltà economiche, che vedevano sgretolarsi le fondamenta della tanto discussa scala mobile, erano acuite da difficoltà interne derivanti dalla P2 da un lato, e da tensioni internazionali dall’altro. Come disse Spadolini, "si trattava di difendere, con le unghie e con i denti, un certo modello di sviluppo, un certo tipo di società che vedevamo vacillare, sotto i colpi della crisi."

Di fronte al baratro, il PRI seppe tenere in mano le questioni che assillavano il paese, perché se "la riscossa morale andava condotta con pari vigore al centro e in periferia", allora "ovunque i repubblicani dovevano esserne gli alfieri." E così "si imponevano nuove regole moralizzatrici anche per le amministrazioni locali, quale che ne fosse il colore: controlli più severi sulle operazioni commerciali, maggiore trasparenza sulle grandi scelte amministrative, leggi più penetranti volte a spezzare ogni connessione fra affari e politica, tese a ripulire il sottobosco del potere".

Erano altri tempi, eppure ancora così attuali suonano le parole del grande statista, che agli esordi della sua avventura di governo, così esultava: "Ci sarà un grande avvenire per il nostro paese se sapremo stringere i denti".

La voglia di ripulire lo sporco, che la Loggia P2 era riuscita a insinuare nelle istituzioni, diede animo a Spadolini e al Partito di perseverare in una lotta che i repubblicani perseguivano da tempo: una lotta alle asimmetrie nelle diverse amministrazioni pubbliche, fonte di inefficienze e corruzione, che era diventata gradualmente sempre più preoccupante, dall’impianto della scala mobile alla nascita delle regioni negli anni ‘70.

I governi che Spadolini guidò furono "tendenzialmente fondati sulla strategia della verità, sul colloquio costante con la pubblica opinione, sulla ricerca infaticabile di solidarietà, sociali e politiche, le più vaste possibili, su uno sforzo di dedizione integrale all’opera di risanamento." Un metodo da cui il governo del presidente Monti potrebbe trarre qualche insegnamento, visto che, "senza quest’impatto psicologico favorevole, certamente talune misure di ‘austerity’ non sarebbero passate".

Certo, Spadolini voleva, e poteva, governare "coi partiti e attraverso i partiti". Ma al termine dell’esperienza di governo lo stesso Primo Ministro si pose la domanda: "Ci fu un disegno preciso, volto a logorare il tentativo laico attraverso una progressiva paralisi delle sue [del governo] facoltà decisionali?".

Una domanda che sembra aleggiare oggi: mentre ancora tuona la crisi dell’Euro, mentre si vedono già i lampi di una crisi delle istituzioni europee, nella tempesta si discernono i tentativi di cambiare, non si sa bene come e perché. Ma è oltre la tempesta che bisogna andare. Fu lì che guardò e andò Spadolini: ci sono "milioni di cittadini che devono essere ricondotti alla partecipazione attiva della politica".

Spadolini infatti, benché abbia visto il suo governo cadere dopo pochi mesi, riuscì a fare ottenere al PRI il più importante successo elettorale della sua storia, rimanendo "A Testa Alta", come citò per primo un manifesto forlivese poi battuto su scala nazionale. A testa alta perché Spadolini prese a modello l’esperienza di Ugo La Malfa, della costruzione di un "partito di una sinistra empirica, pragmatica, nata sul rifiuto delle ideologie pietrificate e pietrificanti ereditate dal passato", un partito che seguì il rigore, la serietà e la verità come armi e strumenti di governo democratico e repubblicano. "In verità, il senso degli equilibri complessivi - rammenta lo stesso Spadolini – almeno da parte repubblicana, non fu mai smarrito. Ma soprattutto venne preservato quel filo diretto col paese che aveva rappresentato forse la principale conquista dei miei governi."

Infatti, "nessuno dei due maggiori partiti della coalizione era in grado di abbattere da solo un ministero che stava attuando puntigliosamente il proprio programma, che godeva della fiducia del presidente della Repubblica, che riscuoteva crescenti consensi di pubblica opinione, in Italia e all’estero". Presto Spadolini si vide quindi fronteggiato da tutti i mezzi che offre la democrazia, dalla petulanza alla pedanteria, alle continue interruzioni, emendazioni, aggiornamenti, sospensioni che, se abusate, riescono a bloccare l’intero ingranaggio.

E lo stesso Spadolini fu "più volte tentato di andarsene", spinto da un continuo tessere la tela di Penelope. Un fare e disfare immobilista, animato, allora come oggi, da un sottobosco della politica ubiquo.

"L’amore secolare all’Italia, un amore quasi fisico e passionale, generoso e struggente come solo può essere un sentimento che ha nutrito generazioni di combattenti" deve riprendere il sopravvento oggi, ora, in un’Italia sull’orlo del baratro. L’impegno dei Repubblicani, tutti, sarà speso anche nel ricordo sempre vivo della grande personalità di Giovanni Spadolini.

(con la collaborazione di Giulio Tartaglia)